di Cristina Rombolà
59. – Gnocchi di patate
La famiglia delli gnocchi è numerosa. Vi ho già descritto li gnocchi in brodo del N. 11: ora v’indicherò li gnocchi di patate e di farina gialla per minestra e, più avanti, quelli di semolino e alla romana, per tramesso o per contorno e quelli di latte per dolce (Artusi, 2011, p. 52)
Gnocchi gnocchi gnocchi! No, non mi riferisco a Gene o a Charlie! Mi riferisco al piatto, uno dei più diffusi della penisola. Che gli gnocchi siano sempre stati presenti nell’immaginario gastronomico collettivo nazionale è un dato di fatto. Basti pensare al trecentesco paese di Cuccagna dove, tra i sogni dei poveri affamati, figurano gigantesche pentole di maccheroni rovesciate su montagne di formaggio grattugiato. I maccheroni protagonisti del Bengodi, descritto all’ingenuo Calandrino in una novella di Boccaccio, sono in realtà gnocchi. Massimo Montanari (2009, p. 54) spiega infatti che Luigi Messadaglia, primo storico dell’alimentazione italiana, ha così interpretato il nome. Maccheroni da maccare, ammaccare, impastare, cioè gnocchi. E sempre con il nome di maccheroni gli gnocchi compaiono in un altro episodio letterario. Sono due vassoi di maccheroni (gnocchi) burro e formaggio a coprire la bibbia in cui è nascosto un catenaccio che servirà a Giacomo Casanova per la fuga dalla prigionia ai Piombi. Il libro è l’Histoire de ma vie, autobiografia postuma di Giacomo Casanova, avventuriero, scrittore e diplomatico settecentesco della repubblica di Venezia, famoso per le sue arti seduttive e per le sue cene.
La semplicità della ricetta ha fatto sì che gli gnocchi diventassero un piatto caro alla gastronomia nazionale. Una diffusione, quella degli gnocchi, che supera ogni statuto sociale: dalla cucina contadina a quella di corte. Montanari (2009, p. 55) fa risalire le loro prime comparse già ai ricettari del Medioevo e del Rinascimento. E ricorda come anche i migliori cuochi di corte del Rinascimento li cucinassero. Cristoforo Messisbugo li vuole preparare per la tavola degli Estensi a Ferrara. E perfino Bartolomeo Scappi, alla corte del papa a Roma, cita la ricetta dei “maccaroni, detti gnocchi”, fatti con farina, mollica di pane, acqua bollente, ricoperti di salsa d’aglio. Farina o pane grattugiato, formaggio e rosso d’uovo. Questi i primi ingredienti. La forma è quella di polpetta da cuocere in acqua bollente. Con la scoperta dell’ America arriva, dal nuovo continente, la patata. Anche la ricetta originale ne risente. Dal XVIII secolo, riferisce Montanari (2009, p. 55), infatti, complice l’uso del tubero nell’impasto, gli gnocchi assumono il sapore dolciastro cui siamo abituati. E’ l’innovazione che si adatta alla tradizione, è la storia che si ripete. E la vecchia ricetta? Continua a esistere, parallelamente alla nuova, come sempre accade. Gli gnocchi di farina medievali, infatti, permangono. Che altro sarebbe, altrimenti, la variante trentina dei Canederli?
La molteplicità delle versioni, intesa sia negli ingredienti (con farina, con patate, con uova, con formaggio), sia nelle forme (larghi, piccoli, lunghi, ovali, cilindrici, sferici) fa sì che gli gnocchi rappresentino in pieno l’identità culinaria italiana. Una grande varietà di tradizioni gastronomiche, riflesso di una storia segnata dal particolarismo e dalla divisione politica, collegate da una rete che “unisce realtà diverse, rendendole in varia misura omogenee sul piano culturale, tramite la circolazione di uomini, idee, merci” (Montanari, 2010, p. 9). Una conoscenza condivisa è alla base di ogni cucina, depositaria sì di tradizioni, ma allo stesso tempo aperta ad apporti diversi. Non è un caso che un lungimirante Pellegrino Artusi aveva pensato bene di scrivere “un’opera collettiva”. La sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è, infatti, frutto di carteggi con le lettrici che, da tutta Italia, attraverso suggerimenti e precisazioni, gli consentono di aumentare il numero delle ricette. Parlando di gnocchi, Artusi cita sei ricette: gnocchi di patate in brodo; quelli di patate e di farina gialla per minestre (da condire con burro o sugo di pomodoro); quelli di semolino e alla romana per tramesso; quelli di latte per dolce.